L’Osservatore Romano 31 1 18: A dieci anni dalla pubblicazione del «Francesco» di Alda Merini

fotografia di Salvatore Contessini (2005)

 

Articolo di Felice Accrocca pubblicato su L’osservatore Romano il 31 gennaio 18

L’uomo  che si fece preghiera

· A dieci anni dalla pubblicazione del «Francesco» di Alda Merini ·

31 gennaio 2018

Nel breve testo in prosa che in Francesco. Canto di una creatura (2007) precede lo sgorgare dei versi, Alda Merini afferma che «la nostra anima è triste, fino alla morte, perché l’uomo ha paura, ha paura di credere». Non è tuttavia questa l’unica paura da cui gli uomini si lasciano troppo spesso risucchiare, perché anche la paura di sbagliare, e quindi di sottomettersi all’altrui giudizio, tante volte li avvolge fin quasi a soffocarli.

È interessante, a questo proposito, rileggere quanto la poetessa confidò a pochi mesi dall’uscita del libro a Francesco Nati in un’intervista del 5 gennaio 2008, ormai dieci anni fa. Secondo Merini «forse, né Manganelli né Quasimodo né Sereni, forse nemmeno Turoldo», avevano «sentito il profumo della provvidenza divina, del Grande Maestro. Avevano paura di sbagliare, anche a parlare, rinunciando a questo svestirsi generale di tutti gli orpelli, per apparire nudi e perfetti come Dio ci ha fatto. Perché coprirci di mantelli? Siamo la più bella fattura divina. Una fattura che non smetteremo mai di pagare».
Francesco no! Si era ormai svestito, lui, di ogni cosa che potesse ornare l’uomo vecchio e nella sua nudità mostrava la bellezza della gloria divina. Ancora in quella intervista — alla domanda di Nati, «Cosa vede in san Francesco?» — Merini affermava di cogliere nell’esperienza cristiana del fratello di Assisi la bellezza della «rinuncia totale alle cure degli uomini e soprattutto la bellezza delle piccole cose, la scoperta quotidiana della vita, il fatto di sentirsi vivi anche dopo essere stati martirizzati, violentati, e ancora sorridenti, ancora a chiedersi il perché malgrado tutto si è felici».
Una lettura che finiva chiaramente per incrociarsi con il percorso biografico della poetessa, rinata più volte dalle macerie dopo ripetute cadute che l’avevano condotta a lunghi periodi d’internamento in diversi ospedali psichiatrici.
Francesco è un monologo poetico nel quale Alda Merini offre la sua comprensione del santo di Assisi. A parlare è l’uomo di Dio, in una successione che non ha una sua — almeno apparente — coerenza interna: si tratta piuttosto di una successione di istanti, di alta validità stilistica, nei quali compare lo stesso intreccio tra due vicende, quella di Francesco, appunto, e quella di Alda Merini.
Il giovane uomo di Assisi, ricco e — in fondo — viziato, non fu compreso dai genitori, dal padre soprattutto, che avrebbe voluto indirizzare a suo modo il percorso del figlio; Alda da par suo, dopo le scuole di avviamento al lavoro, dovette interrompere gli studi per ragioni familiari, fatto questo che produsse uno strappo difficilmente ricucibile nella sua psicologia; nell’un caso come nell’altro la vicenda familiare — anche se per motivi diversi — ha condizionato l’esistenza di entrambi.
Credo permangano perciò tracce autobiografiche nei non pochi versi (qui ne stralcio solo alcuni) che Merini dedica al controverso rapporto di Francesco con il padre, nel tentativo di comprendere le ragioni di un amore paterno incapace di comprendere le durezze — perché, alla fin fine, poterono risultare tali — di un figlio verso il padre.
«Mio padre, che ho tanto amato / era vestito di pura menzogna. / E si rallegrava soltanto / quando io godevo di quei beni / per dar da mangiare ai miei vizi». «Ma come posso capire un padre / che nella carne di un figlio / ha visto il proprio avvenire?». «Come l’ho deluso / come ha pianto per me / e io piango con ser Bernardone / tutto ciò che insieme abbiamo lasciato / i nostri vicendevoli inganni». «Ma è giusto, Signore / dimenticare / chi a modo suo ci ha amati / ricoprendoci di denaro / e di vesti sontuose? / È la miseria di un genitore / che non capisce / che un figlio appartiene a Dio. / Ma un uomo come mio padre / che aveva paura della morte / come poteva capire? / Il denaro è una scusa / per difendersi dalla morte / è una maschera sotto cui l’uomo si nasconde / per non far vedere che è un angelo / un angelo triste e tribolato. / Io volevo essere nudo / volevo essere solo anima».
E ancora: «Quanti errori commettono i padri / rivestendo di gemme i figli / che vogliono la povertà e il lavoro / e la dimestichezza con Dio».
Il santo, spogliatosi di ogni cosa e spogliato di ogni cosa, diviene così l’amico di Dio, seguendo le orme di Colui che era fin da principio, il quale disse e tutte le cose furon fatte, e che scelse di spogliarsi e di essere spogliato di ogni cosa per ricondurre l’uomo alla sublimità della propria vocazione. Fatto amico di Dio, Francesco è capace perciò di vedere uomini e cose con gli occhi di Dio. «Ciò che l’uomo trova inutile / le cose più piccole, i più insignificanti silenzi / Dio li trova estremamente preziosi. / Perciò salverò ogni filo d’erba, perciò le creature dimenticate / diventeranno le mie creature: / gli emarginati, gli storpi / coloro che l’uomo / non vuol ricevere nel suo cuore / ma che la morte abbraccia / questa sorella che io amo sopra ogni cosa».
Immerso nel mistero, non era tanto un uomo che pregava — disse di Francesco Tommaso da Celano — quanto fatto egli stesso preghiera (non tam orans quam oratio factus). Una preghiera che, secondo Merini, «non è nulla: / è una tomba che va devastata / devastata fino allo spasimo / per tirar fuori l’unico Verbo / la vera parola di Dio».
Quella Parola che sola può dire la verità di tutte le cose, che sola è capace di fare di tutte le creature un unico sinfonico inno in lode di Dio e rende l’uomo pazzo del suo Signore: «E io sono folle, / folle come te, Signore / folle d’amore…». «Io sono diventato / il ponte buttato tra la tua nascita / e la tua risurrezione. / Camminate sopra di me / calpestate Francesco / per arrivare fino al Calvario». La persona del Santo, la sua umanità, diviene così quasi personificazione dell’esistenza del Figlio di Dio, in una cristomimesi che nella esistenza dell’uno riflette e rilegge quella dell’Altro.
E poi c’è Chiara, «che avrebbe potuto essere / la palestra del mio amore, / ed è invece diventata / la musa ispiratrice / del sogno di Dio». Sempre nell’intervista concessa a Francesco Nati, Merini disse che quello per Chiara «è stato un grande amore di Francesco, come quello di Giuseppe per la Madonna, il custode di un cuore. Tutti e due hanno custodito il cuore della donna. È stato magnifico, non hanno protetto la carne della donna, ma il cuore, quel cuore che a tante donne è stato strappato con la violenza». Anche qui, quale straordinario intreccio biografico! «O donna angelicata e sublime, / come non diventerò un grande poeta / cantando le tue sublimi stanchezze?». «Noi siamo due torce d’amore per Dio, / ma abbiamo scoperto, divina compagna, / che se il nostro corpo / è una prigione con mille sbarre, / dopo si allarga la valanga del cielo».

È un Francesco, quello di Alda Merini, capace di trasmettere l’inquietudine della fede e per questo mi sento di riproporlo oggi. Perché solo una fede inquieta, diceva il cardinale Carlo Maria Martini, può essere una fede pensante.

di Felice Accrocca


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